Francisque Sarcey su Pelléas et Mélisande
"Le Temps", 22 mai 1893
ora in Quarante ans de théâtre, Paris, Bibliothèque des Annales Politiques et Littéraires, 1902
Una associazione di giovani innamorati dell'arte pura ci ha offerto, questa settimana, di giorno, la prima rappresentazione di un nuovo dramma di M. Maurice Maeterlinck, Pelléas et Mélisande. Eravamo stati avvertiti che questa prima rappresentazione sarebbe stata l'unica, perché sarebbe stato impossibile, a Parigi, in questa città d'idioti, rammolliti dagli spettacoli forniti dagli Augier, i Sardou, i Dumas, i Meilhac e gli altri vaudevillisti, trovare più di mille o milleduecento adepti in grado di capire e ammirare questo capolavoro belga. Io ero stato incluso nel novero degli invitati; certo non perché si avesse la minima fiducia nella mia intelligenza; non mi vanto di questa illusione; era a "Le Temps" che si aprivano, nella mia persona, le porte del santuario. venivamo considerati, io e senza dubbio alcuni altri, come profani; del resto, si erano disturbati di avvertirci che tutti coloro i quali non si fossero estasiati ad ogni scena, tutti coloro che avessero smesso per un solo istante di vibrare d'entusiasmo, sarebbero stati imbecilli puri e autentici cretini.
nella sala dovevano esserci solo iniziati e neofiti. E in effetti il teatro delle Bouffes aveva assunto, quel giorno, un aspetto particolare: non era uno spettacolo, era un uffizio al quale sia andava ad assistere. Aveva assunto un'aria grave, raccolta, misteriosa. Non era più la gioisa animazione delle prime: si mormorava appena, nell'attesa di chissà che d'immenso. Il sipario si sarebbe alzato su un aldilà maeterlinchese.
Si alza; le luci si spengono; è quasi notte in sala. La scena è per metà illuminata d'un lucore crepuscolare. Sentiamo dietro la tela del fondale grida di donne che chiedono che si apra loro la porta. Il portiere parlamenta un po'; decide di aprire. Le donne entrano; sono serve che dichiarano di andare a lavare la soglia e la gradinata d'ingresso.
— Portate l'acqua, dicono, portate l'acqua.
— Sì, risponde il portiere, versate l'acqua, versate l'acqua, versate tutta l'acqua del diluvio; non ne verrete mai alla fine.
E cala il sipario. Qualche giovane fa per applaudire; ma gli inziati impogono loro il silenzio. Questi applausi disturberebbero l'emozione; emozione che ha qualcosa di ieratico come quelal che i fedeli provano alla messa, quando il prete mostra loro l'ostensorio.
Anch'io taccio, ma da parte mia più che altro per lo sbalordimento.
— Avete l'aria di chi non capisce, mi dice cortesemente il mio vicino; è simbolismo.
— Ah! è un simbolo?
— Sì, le serve che chiedono l'acqua per lavare la gradinata, ed il portiere che risponde che tutta l'acqua del diluvio non la laverebbe, preparano il vostro spirito ai crimini straordinari che verranno commessi in questa casa. Ci sarà del sangue e Il mare vi passerà senza lavare la sporcizia. — Ma non c'è ancora sangue!...
— Perché è un simbolo! o si ha l'intelligenza aperta al simbolo o non la si ha. Voi non l'avete.
— Ma, continuo io piano, piano, per non guastare l'emozione, mi potreste dire, visto che sembrate così al corrente, perché ogni personaggio ripete sempre due volte lo stesso membro della farse o la stessa parola. Così il portiere, quando ha detto: «La porta cigola», aggiunge: «La porta cigola», e continua: Come grida! come grida!... È aperta, è aperta. E anche le serve non mancano di dire due volte; Portate l'acqua! portate l'acqua! È un espediente, un tic di Maeterlinck?
— Ciò che si chiamerebbe tic o espediente negli altri, è una bellezza di più in Maeterlinck. Maeterlinck vuole dare un'impressione di ingenuità; il suoi personaggi galleggiano nell'irreale; essi non parlano; è una sorta di balbuzie infantile. Tra poco vedrete Mélisande; con lei è un'altra cosa: ripete tre volte ogni parola. Non dice come voi e me, che viviamo nel reale: «Sono fuggita», ma «Io sono fuggita, fuggita, fuggita». È molto bello, lo si deve ammirare.
— Ah! lo si deve ammirare?
— Preferite esser tarttato da imbecille e da cretino? Sst! Il sipario si rialza.
— Diamine! non guastiamo l'emozione.
La scena è sempre immersa nell'oscurità; la sala uguale. Si è più raccolti, quando non ci si vede chiaro. Scopro, sgranando gli occhi, una fanciulla che sta seduta sul bordo di una fontana e sembra piangere. Entra un cacciatore, che racconta di essersi perduto. Vede la fanciulla; apprende che è fuggita, fuggita, fuggita. Ma da dove è fuggita? Lei non lo dice; perché è fuggita, fuggita, fuggita? Non lo vuole dire e non lo sapremo mai. Aveva, a quanto pare, una corona in testa; l'ha lascita cadere nell'acqua; il cacciatore le propone di riprenderla. Lei non acconsente. Le propone allora, trovandola bella, di andare con lui.
— Dove andate? gli domanda lei.
— Non lo so, riponde lui; anch'io mi sono perduto. È la fine del secondo quadro; il primo era durato due minuti; questo tre o quattro. Mi rivolgo timidamente alla mia guida.
— Chi è questa Mélisande, sulla quale non abbiamo informazioni?
— Ma se non vi si danno informazioni su di lei, e perché non ne dovete sapere niente. Mélisande non è una persona particolare, è un essere simbolico...
— E che galleggia nell'irreale?
— Oh! vedo che cominciate a capire. Va già meglio.
— Comunque c'è ancora qualcosa che mi preoccupa: a teatro gli esseri simbolici sono rappresentati da attori in carne e ossa e si è obbligati a dare una forma all'irreale.
— Oh! ma così poco! così poco! veniamo immersi apposta in una semi-oscurità; tutti i costumi sono di tinta neutra, tutti i volti sfumano in una tonalità uniforme grigia; notate ancora: gli attori salmodiano la loro parte.
— Sì, e anche questa fissazione della melopea perpetua mi irrita notevolmente, lo confesso.
— Perché non siete ancora a punto. Farete assai fatica a disfarvi dei vostri pregiudizi: voi venite a teatro per eseere interessato, divertito o cmmosso; è roba vecchia, quella: ora si comunica sotto la specie del simbolismo. Il teatro, nella nuova scuola, è un muro oscuro dietro cui accade qualcosa di misterioso. Voi scorgete a intervalli, dietro una fessura, un'ombra che passa mormorando parole enigmatiche: voi indovinate il resto. Mélisande è la donna in sé, o meglio l'amore in sé, che si porta dietro qualche breve gioia e molte disgrazie. Si chiama Mélisande perché non c'è verso di non darle un nome; è una delle seccanti necessità di quest'arte inferiore detta teatro. Sarebbe meglio che galleggiasse, essere irreale, nell'irreale.
— Sarebbe ancora più allegro, in effetti. Si deve credere che, in questa scuola, si sia più indulgenti e meno avari di dettagli precisi e caratteristici per gli uomini che per le donne. Perché si è saputo che il cacciatore, che si chiama Golaud, è il nipote del vecchio re Arkel, che è vedovo e ha già le tempie canute.
— Sì, ma non saprete mai in quale contrada sia situato il regno del vecchio Arkel. Egli abita un antico castello molto cupo, circondato da grandi foreste oscure e costruito su profondi sotterranei, da cui esala un odore di morte. È tutto ciò che ne saprete, e non avete bisogno di saperne di più.
Il sipario si rialza; è sempre buio. Comincio ad abituarmi; ci si abitua a tutto. Golaud, nell'intervallo da un quadro all'altro, ha sposato, senza il consenso del padre, Mélisande, chi è diventata la matrigna del suo ragazzino Yniold. Il vecchio re ha perdonato; Golaud ha riportato sua moglie al castello, dove entrambi sono stati ben accolti sia dal nonno, il vecchio re Arkel, sia dalla madre Geneviève, sia dal fratello, bel giovane di nome Pelléas.
Pelléas entra in scena; vedo sorgere il dramma.
Questo dramma, mio Dio! posso dirvelo subito che non è un'invenzione tanto nuova. Sono gli amori incestuosi di una donna sposata con il cognato; lo sposo oltraggiato sorprende i colpevoli, uccide l'uno e ferisce l'altra che muore poco dopo. Ma l'argomento ha meno importanza che il modo con cui lo si tratta.
Vi ricordate nelle posie di Casimir Delavigne... Ma come mi può venire alla penna il nome aborrito di questo povero Casimir Delavigne, il giorno che essa ha l'onore di scrivere quello di Maeterlinck? Porgo tutte le mie scuse per questa incongruenza alla gioventù del mio paese... Ma infine, visto che la parola è sfuggita, vi ricordate la poesiola che ha per titolo Limbo: Nulla di ardente, nulla di agitato
Nella loro triste felicità;
S'incoronano senza gaietà
    Di fiori novelli;
Si parlano, ma a voce bassa;
Camminano, ma passo passo;
Volano, ma non si sente
    Battere le loro ali.
Il ricordo di questi deliziosi versi mi è risalito alla memoria ascoltando scena dopo scena la pièce di Maeterlinck. Alla lunga si prova un'impressione all'incirca simile a quella che ha tentato di caratterizzare Casimir Delavigne.
Mélisande e Pelléas sanno appena se si amano, tanto questo amore è etereo, diafano, d'una malinconia diffusa e fluida. È per indizi brevi e sfuggenti che Mélisande si lascia sfuggire il segreto di cui non ha essa stessa coscienza.
Pelléas è obbligato da una circostanz qualsiasi a lasciare il castello, a esiliarsi. Tutti e due, la vigilia della partenza, guardano tristi il mare e il vascello che lo porterà via.
— Oh! perché partite? gli chiede lei innocentemente, con la sua intonazione accorata.
Non è che una parola; basta per avvertirci. L'interesse comincia a nascere, perché entriamo in un mondo reale di passioni che cozzano l'una contro l'altra. I personaggi possono essere ancora simbolici; possono ancora muoversi in un ambiente fantastico ed irreale; è già qualcosa avere fatti che siano fatti, e fatti tangibili. Maeterlinck potrà anche avvolgerli, ovattarli di buio e di silenzio, essi attireranno lo sguardo e sosterranno l'attenzione.
Abbiamo una conversazione tra Pelléas e Mélisande sul bordo di una fontana, nel parco. Questa scena non è assolutamente sconosciuta: è quella di Perdican e Camille in On ne badine pas avec l'Amour. Camille gettava l'anallo nell'acqua; Mélisande vi lascia cadere, giocandovi, la sua fede. La differenza tra le due scene, è che l'una è scritta in uno stile da bebè e l'altra in una poesia ammirevole:
— Il mio anello! esclama Mélisande... Oh! oh! è così lontano da noi! No... no... non è lui... non è lui... è perduto, perduto, perduto... Non c'è che un grande cerchio sull'acqua... Che cosa faremo? che cosa faremo, adesso?
Se la Camille di Musset balbettasse questo stesso parlare infantile, gli ammiratori di Maeterlinck alzerebbero le spalle; ma dal momento che è di Maeterlinck, non c'è che da inchinarsi.
Nell'atto successivo, Golaud, discutendo con Mélisande che gli ripete incessante con la sua voce dolente: «Io non sono felice! Io non sono felice!», si accorge che lei non ha più il suo anello, e siccome lei gli confessa di averlo perduto nella vasca, senza dirgli in compagnia di chi, lui le dà ordine d'andare a cercarlo immediatamente:
— Immediatamente! chiede Mélisande, nell'oscurità? Mi chiedo perché faccia questa obiezione. L'oscurità nella pièce è continua, i suoi occhi avrebbero dovuto abituarvisi.
— Immediatamente, risponde il marito. Vacci, vacci con chiunque. Ma bisogna andarci subito, capisci. Spicciati; chiedi a Pelléas di venire con te.
— Pelléas! ma Pelléas non vorrà!
— Pelléas farà tutto quello che gli chiedi. Conosco Pelléas meglio di te. Vacci, vacci, vacci, sbrigati. Non dormirò se non avrò l'anello.
— Oh! oh! io non sono felice! io non sono felice! io non sono felice!
E cala il sipario. Mi sporgo verso il mio cortese vicino:
— Questo, gli dico, è un simbolo; ma questi simboli qui li capisco facilmente. Maeterlinck vuole segnalarci che i mariti sono tutti dei gonzi, che non vedono nulla di ciò che buca gli occhi a tutti, e che gettano essi stessi le mogli nelle braccia dell'amante.
— Eh! mi dice lui, ecco che comiciate aa addentrarvi nel simbolo!
— È che ho visto molti vaudeville.
Pelléas e Mélisande vanno insieme nella notte a cercare l'anello. Penetrano in una grotta molto profonda. Tutt'un tratto, la luna squarcia le nuvole, e scorgono, alla sua luce, tre vecchi poveri coi capelli bianchi, seduti l'uno accanto all'altro, sostenendosi a vicenda, e addormentati accanto ad un blocco di roccia. Alla vosta di questi tre mendicanti, Pelléas indietreggia e dice a Mélisande:
— Andiamocene! Torneremo un altro giorno.
Il sipario cala. Io guardo, sgomento, il mio vicino che resta impassibile:
— È un simbolo, il trio dei poveri addormentati? Di primo acchito non lo capisco.
Si mette misteriosamente un dito sulle labbra:
— Sst! mi dice, Voi non lo capite; nemmeno io lo capisco; essi non ne sanno di più... nessuno lo capisce.
— Eccetto Maeterlinck, immagino?
— Per chi lo prendete? Nemmeno Maeterlinck lo capisce. È il trionfo del simbolo. Ricordate il motto del barone in On ne badine pas avec l'Amour, che Maeterlinck ha molto letto e molto imitato, mostrando così di essere un genio affatto originale. Il barone parla delle donne: «Io li conosco, dice, questi esseri affascinanti e indefinibili: gettate loro della polvere negli occhi; esse li sgraneranno per averne di più». Bene, è lo stesso con gli amici di maeterlinck: più gli si getta del simbolo in bocca, più la aprono per trangugiarne ancora.
— vada per i tre poveri, gli dico io, rassegnato.
Maeterlinck ci ha offerto una seconda edizione dell'anello perduto nella fontana; ci riedita, con lo stesso gusto per l'originalità, la scena del balcone di Romeo e di Giulietta. Mélisande è alla sua finestra, che si sistema i capelli per la notte. Perché è notte sulla scena e in sala, ut aequum est. Pelléas passa di lì, la vede nella cornice della finestra e si mette a chiacchierare con lei.
Le chiede di dargli la mano; ma la finestra è troppo alta per far scenderle la mano fino alla sua. I capelli di Mélisande si sciolgono e Pelléas li afferra, li bacia, se li avvolge addosso. Si sente un rumore di passi: Mélisande vuole rialzarsi; ma i capelli, impigliati ai rami degli alberi, le impediscono si sollevale la testa. Arriva Golaud e chiede loro che stanno facendo là, e siccome essi sono assai imbarazzati per rispondere:
— Siete dei mabini, dice loro; Mélisande, non ti sporgere così alla finestra; finirai col cadere. Ma non lo sapete che è tardi? È quasi mezzanotte, non giocate così nell'oscurità. Siete dei bambini...
E, ridendo d'un riso nervoso:
— Che bambini! aggiunge, che bambini!
La scena è costruita molto piacevolmente: ma com'è sommaria tutta questa psicologia! So bene che mi diranno gli ammiratori di Maeterlinck: è intenzionalmente sommaria. Eh! bene, mi dispiace! Preferirei a queste silhouettes che proettano sulla tenda d'una lanterna magica gesti sedicenti suggestivi uno studio di carattere o di passione.
Arriviamo alla scena che mi sembra la più nuova in questo dramma: Golaud, tormentato dai sospetti, interroga il piccolo Yniold, suo figlio, che nella maggior parte del tempo fa il terzo incomodo negli incontri di Mélisande, che egli chiama mammina, con Pelléas. Gli chiede se qualche volta non viene allontanato, ciò che dicono, ciò che fanno in sua presenza; il bambino risponde, senza capire bene il senso nascosto delle domande, ma con un vago sospetto che nascondano qualche mistero.
La finestra della camera di Mélisande s'illumina. Ma non si può vedere che cosa vi accade se non guardando da un abbaino, troppo alto perché Golaud possa arrivarci. Allora alza il bambino sulle spalle e gli ordina di guardare:
In effetti c'è Pelléas con Mélisande.
— Non si avvicinano l'uno all'altra? domanda il padre ansioso.
— No, babbino, non si muovono.
— Non fanno dei gesti?... Non si guardano?... Non si fanno dei segni?
— No, babbino.
Poco a poco la paura prende il bambino:
— Non oso più guardare, babbino... fammi scendere.
— Guarda, guarda!
— Oh! oh! Ora grido, babbino. Fammi scendere! fammi scendere!
Il padre lo poggia a terra e cala il sipario.
La scena è molto commovente; è da uomo di teatro. Ora, se Sardou o Meilhac ne avessero azzardato una simile, non sono sicuro che gli stessi che la trovano ammirevole in Maeterlinck non ne sarebbero per niente scandalizzati in un nostro compatriota e che non si scriverebbe una bella tirata sul rispetto per i bambini. Si chiederebbe alla bambina che recita Yniold perché non è a letto a quell'ora. Io ho meno scrupoli, e tuttavia ho sentito un po' di fastidio a vedere il marito che obbliga il figlio a tenere gli occhi fissi su uno spettacolo che offende la sua innocenza disonorando quella che chiama mammina.
Gli eventi dovrebbero precipitare; ma arriviamo allo scioglimento solo attraverso scene d'un simbolismo così trascendente che è lettera chiusa per tutti. Così il piccolo Yniold è in scena: vede lontano un gregge di montoni; si lancia in un monologo lungo e singolare sulle diverse evoluzioni di questo gregge, e con aria spaventata:
— Tacciono tutti, dice. Pastore, perché non parlano più?
Il pastore, che non si vede, risponde da lontano:
— Perché non è il sentiero dell'ovile.
— Dove vanno? pastore, pastore, dove vanno? Non mi sente più. Sono già lontani. Vanno in fretta, non fanno più rumore... non è più il sentiero della stalla... dove vanno a dormire stanotte? Oh! oh! è troppo buio. Andrò a dire qualcosa a qualcuno...
Esce, per dire qualcosa a qualcuno, e cala il sipario.
Si è levato qualche risolino irrispettoso; un fremito d'indignazione, a questo piccolo tentativo di rivolta, ha percorso tutto l'uditorio.
— Silenzio! ha esclamato una voce autoritaria e vendicativa.
Tutti abbiamo taciuto.
— Certo, ho detto al mio vicino, sporgendomi sul suo orecchio, qui c'è del simbolo triplo, di quello che non capiscono né i profani, né gli iniziati, né lo stesso simbolista.
— Non turbate i misteri, mi dice. Il sipario si alza di nuovo.
Continua a fare notte sulla scena e in sala. Darei cento soldi per un raggio di sole. Ma pazienza! Ancora un piccolo sforzo! Siamo alla fine del nostro piacere.
Pelléas deve partire; perché non può ignorare che Golaud ha sorpreso i suoi amori segreti con Mélisande. Meglio per lui allora andare in esilio; ma, prima di lasciare il castello, ha voluto un ultimo incontro con la beneamata. Le ha dato un appuntamento alla fontana, nel parco. Ancora, abbiamo un ricordo della scena immortale di Musset, in Il ne faut pas jurer de rien. Pelléas vuole portare Mélisande sotto gli alberi, all'ombra. Lei preferisce rimanere in una radura, dove la luna l'avvolge della sua pallida luce. Si divertono a guardare le proprie ombre, allungate enormemente dalla luna, che splende dietro di loro. Ma, mentre si scambiano parole un po' melanconiche e un po' appassionate, scorgono davanti a loro un fantasma che li ascolta; è Golaud, nascosto dietro un albero.
— Vattene, dice Pelléas alla sua amante. Ha visto tutto, ci ucciderà.
— Tanto meglio! tanto meglio! tanto meglio!
— Eccolo! eccolo! La tua bocca! la tua bocca!
E si baciano disperatamente.
— Ancora! ancora! grida Pelléas. Dammi, dammi!
— Tutta, risponde Mélisande, appiccicata a lui, tutta, tutta.
Golaud si precipita sulla coppia, uccide Pelléas; Mélisande fugge lamentandosi: «Mon ho coraggio! non ho coraggio!» e Golaud la insegue per il bosco.
Almeno questo è teatro, teatro come ne fanno tutti, e avrei applaudito volentieri, se mi fosse stato permesso; ma la consegna era, come a l'Opéra per la Valchiria, di essere schiacciati dall'ammirazione. L'uomo che, dinanzi a simili bellezze, conserva la forza di applaudire, è un semplice gozzuto.
Nel quinto atto, Mélisande, che è stata ferita, è stesa su un letto. Muore non della ferita, che non è niente:
«Un uccellino, dice il medico, non ne sarebbe morto... ma lei non poteva vivere... è nata senza ragione... per morire; e muore senza ragione».
Dice assai bene, questo medico; ed è proprio questo di cui mi lamento; che sia nata, che sia vissuta e che muoia senza ragione. Perché è solo sapere la ragione delle cose che a teatro mi diverte.
C'è comunque ancora una scena assai curiosa. Golaud vorrebbe sapere davvero se è stato ingannato fino in fondo, o se i due amanti si sono limitati ai piccoli suffragi. Prega il nonno e la madre e il medico di lasciarlo solo con la moglie.
E quindi la incalza di domande.
— Siete stati colpevoli? di': sì, sì, sì...
— Perché me lo domandate?
— Dimmi la verità per l'amor di Dio.
E insiste:
— Abbiamo bisogno della verità! Abbiamo bisogno della verità!
La verità non l'avrà! Questa è ancora una scena simbolica. Maeterlinck vuole significare che mai i marito possono arrivare ad essere sicuri di questo genere di cose; ma in Barbourouche c'è una scena non meno simbolica, dalla quale risulta che, quando hanno le cose sotto gli occhi, preferiscono non crederci.
Mélisande morirà, e noi vediamo riapparire le serve-Erinni del primo quadro, tutte vestite di nero; cadono in ginocchio, cosa che segnaal che Mélisande è morta. Il medico lo constata. Il vecchio Arkel piange, Geneviève singhiozza. Ma Mélisande, alla vigilia, aveva dato alla luce a una bambina nata prematuro.
« — Venite, Golaud, dice Arkel; Mélisande era un piccolo essere tranquillo, così timida, cos' silenziosa; era un povero piccolo essere misterioso come tutti. Eccola, come fosse la sorella grande della figlia. Venite, bisogna che la bambina resti qui, in questa camera. Bisogna che viva adesso al posto suo. È il turno della povera piccola!...»
Avete notato questa espressione, che sembra bizzarra di primo acchito? Era un piccolo essere misterioso come tutti. Eh! sì, ecco il difetto della pièce, è che tutto è misterioso e tutto affetta un'aria di mistero. Si esce da queste tenebre perfettamente abbrututi, come con una calotta di piombo sulla testa. Ah! ho rivisto l'aria aperta con voluttà! Se mi si stuzzica ancora ad andare ad una pièce di Maeterlinck... Lo dico, e poi, se ne viene rappresentata un'altra, andrò lo stesso e m'infurierò con tutto il cuore contro gli inventori di reputazioni esotiche. Se Pelléas et Mélisande fosse stata firmata da un nome francese, certo non si sarebbe rappresentata, o, se fosse stata rappresentata, sarebbe stato da vedere come sarebbe stata dileggiata dai tre quarti di quelli che si sono estasiati l'altro giorno.
Ci metto un po' di cattivo umore; è che si comincia a infastidire terribilmente con queste esibizioni ditirambiche di genii belgi, norvegesi e svedesi, quando abbiamo tra noi tanta gente di talento che ci si affetta a disprezzare e canzonare. C'è molta posa in queste estasi e in questi deliquii. È snobismo puro; si vuole provare a se stessi, ammirando ciò che non si capisce, che si è sul treno. Val meglio avere il coraggio delle proprie opinioni, e sbadigliare ingenuamente quando non ci si diverte.
Bisogna rendere giustizia agli artisti. M.lle Meuris è deliziosa nel ruolo di Mélisande. Dà in effetti la sensazione dell'irreale; è un soffio armonioso e triste. M.me Aubry ha recitato en travesti con molta grazia ed emozione questo Pelléas che è tenero come Romeo e melanconico come Amleto; Lugné-Poe ha fatto fremere nella scena in cui interroga suo figlio; e Raymond ha prestato la sua bella voce, piena e grave, ai discorsi filosofici del vecchio re.
Non credo che si replichi presto il capolavoro di Maeterlinck. Ma è stato pubblicato in brossura; potete leggerlo. Vi dirò anche che troverete più piacere voi alla lettura di quanto noi ne abbiamo gustato alla rappresentazione. In teatro irrita questa falsa ingenuità, che sembra concertata e voluta; ciò che è puerile e banale in queste invenzioni e in questo linguaggio salta agli occhi. Il libro dà l'impulso all'immaginazione, che raggiunge ciò che l'autore indica. Se ne sprigiona un sottile profumo di poesia.
(traduzione dal francese di E.G.C.)